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Alcuni articoli, recensioni, ricordi e riflessioni sulla musica (il resto è su Accordo.it)!

Tom Petty al Lucca Summer Festival 2012: un ricordo.

Una settimana fa, il 2 ottobre 2017, in seguito a un arresto cardiaco se ne andava Tom Petty, lasciando un vuoto incolmabile nel mondo del rock. Ho avuto l’onore e il piacere di assistere al suo concerto al Lucca Summer Festival e sono certa che chi, come me, si trovava in piazza Napoleone quella sera ne serbi un ricordo splendido.  Io rammento ancora di essermi sentita molto fortunata a presenziare, ma non avrei mai immaginato che solo cinque anni più tardi mi sarei trovata a frugare nei miei archivi a caccia di ogni possibile ricordo di quell’evento, nel tentativo di rivivere il mio unico concerto di Tom Petty. Rovistando tra le cartelle ho trovato una recensione scritta quella stessa notte, al mio rientro a casa, e mai pubblicata. Mi ha fatto piacere ritrovarla e mi fa piacere condividerla. So long, Tom!  

 


Non poteva aprirsi in modo migliore l’edizione 2012 del Lucca Summer Festival, che ha riportato in Italia un autentico colosso della musica internazionale dopo ben 25 anni. Venerdì 29 giugno Tom Petty & The Heartbreakers hanno raccolto in Piazza Napoleone più di 5500 persone di tutte le età, facendole correre lungo i 36 anni della loro carriera, quasi a volersi far perdonare per il ritardo di un quarto di secolo.

Con una scaletta che ha alternato super hit, brani meno noti e cover, Petty non ha faticato a regalare al proprio pubblico un concerto variegato in forme e stili, potendo attingere a un repertorio sterminato:  dalla byrdsiana apertura con “Listen to her heart” e dal pop rock di “Don’t come around here no more” al rock’n’roll delle origini in una splendida versione di “Carol” di Chuck Berry; dalla ballata dei Traveling Wilburys scritta da George Harrison “Handle with care” (uno dei momenti più commoventi della serata insieme alla versione acustica di “Learning to fly”)  al folk rock di “Yer so bad”, al rock blues di “Something big” e al vintage rock più duro di “Oh well” dei primi Fleetwood Mac e di “I should have known it” (tratta come “Good enough” dall’ultimo lavoro in studio di Petty, Mojo, del 2010), senza deludere l’attesa di quanti da anni aspettassero di cantare a squarcia gola le immancabili “Free Fallin’”, “Mary Jane’s Last Dance” e “American Girl”.

Nonostante la forte presenza scenica, Petty rimane un frontman di basso profilo che spesso preferisce lasciare i riflettori ai compagni di band. La sua performance è sobria, sempre centrata sull’interpretazione e sulla resa dei pezzi piuttosto che sui lazzi da showmanship estrema. Lo stesso si può dire degli Heartbreakers, che si contraddistinguono più per il sound sanguigno che per i virtuosismi, come si addice al loro repertorio. Mike Campbell, chitarrista istintivo di estrazione pageana e figura bizzarra, sacrifica spesso e (molto) volentieri la precisione nell’esecuzione in favore di soli “di stomaco” e dà il meglio del proprio rock mojo con lo slide. Scott Thurston (ex Stooges) si ritaglia un ruolo insostituibile in qualità di chitarrista, armonicista, tastierista e bravo corista. Ron Blair, bassista, è una colonna degli Heartbreakers in quanto cofondatore della band insieme a Petty e a Benmont Tench, al piano, organo Hammond e Mellotron. Dulcis in fundo, Steve Ferrone alla batteria (“il mio batterista preferito al mondo”, dice Petty al pubblico), il musicista tecnicamente più solido, che fa da autentico collante in questa eclettica line up. Con un drumset in stile John Bonham della Gretsch, infonde a questi brani un suono potente e massiccio, spesso molto più incisivo delle rispettive versioni originali. Non è un caso che gli Heartbreakers si definiscano “una live band prima di tutto”.

Lo show si è svolto su un palco spartano, con una strumentazione in parte vintage e in parte reissue, che ha regalato alle canzoni e al pubblico un sound meraviglioso, trasportando tutti negli U.S.A. in una dimensione atemporale, dritti nel cuore del rock.  Il parco chitarre, in particolare, era perlopiù vintage originale e un vero spettacolo per gli occhi di amanti dello strumento e non: Fender stratocaster e telecaster, Gibson Les Paul, SG TV Junior, Firebird, J200 e naturalmente Rickenbacker. Vedere certi gioielli ha fatto venire un brivido lungo la schiena al pensiero che solo pochi mesi fa cinque di questi pezzi sono stati “rapiti” da un addetto alla sicurezza di uno studio di Los Angeles in cui la band faceva le prove per il tour (e poi ritrovate dalla polizia al banco dei pegni in cui il tizio le aveva impegnate per 250 dollari…).

Il concerto, due ore di musica frutto di una vera alchimia che solo i veterani riescono a instaurare, ha regalato al pubblico qualcosa di importante da ricordare. Questo, in cambio, ha regalato agli Heartbreakers una partecipazione totale e Petty, visibilmente colpito dalla reazione di questa folla che spesso ha cantato anche più forte di lui, ha riflettuto sul fatto che sia necessario tornare presto. Commovente vedere gente letteralmente in delirio per qualcuno che, benché non abbia da invidiare nulla a nessuno a livello artistico, nel nostro paese rimane molto meno popolare di alcuni altri nomi del rock. Non sorprende affatto che questo tour abbia registrato un altissimo numero di date sold out.

Hanno aperto il concerto di Tom Petty & The Heartbreakers il cantautore americano Jonathan Wilson e la sua band, la cui immagine hippie è in perfetto accordo coi brani eseguiti, che attingono a piene mani da certo rock dei primi anni ’70. Un sound vintage niente male per composizioni non molto originali, alcune delle quali, però, discretamente suggestive.

 

SCALETTA

  • Listen to her heart
  • You wreck me
  • I won’t back down
  • Here comes my girl
  • Handle with care (Traveling Wilburys)
  • Good Enough
  • Oh well (cover Fleetwood Mac)
  • Something Big
  • Don’t come around here no more
  • Free fallin’
  • It’s good to be king
  • Carol (cover Chuck Berry)
  • Learning to fly
  • Yer so bad
  • I should have known it
  • Refugee
  • Running down a dream

BIS:

  • Mary Jane’s last dance
  • Two men talking
  • American girl

Il tesoro di Jackson C. Frank

Un paio di anni fa mi imbattei nell’incredibile vicenda musicale e umana di Jackson C. Frank, “il più famoso cantante folk degli anni ’60 di cui nessuno ha mai sentito parlare”, come qualcuno lo ha definito.  Ispiratore di artisti del calibro di Paul Simon, Nick Drake, Bert Jansch, Roy Harper e Al Stewart, lo statunitense Jackson C. Frank è stato una figura determinante nello sviluppo del folk britannico, nonostante la sua discografia si riduca sostanzialmente a un unico disco in studio, pubblicato nel ’65 dalla Columbia e prodotto da Paul Simon, poi seguito da  ristampe e compilation.

Come in tutte le storie tragiche che si rispettino, la vita di Frank si è interrotta piuttosto precocemente, ma a lasciare ancor più stupefatti sono le traumatiche svolte che il suo percorso ha subito durante i faticosi cinquantasei anni che ha trascorso sulla Terra, prima di trovare finalmente riposo.

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Per chi fosse interessato ad approfondire l’incredibile vicenda di Jackson C. Frank, rimando a un articolo che ho scritto un paio di anni fa su Accordo.it e a una puntata della trasmissione radiofonica L’ultimo negozio di dischi sulla Terra, trasmessa sulle frequenze di Contatto Radio – Popolare Network, a lui interamente dedicata e realizzata l’anno successivo insieme a Stroszek (Claudio Alcara, amico e cantautore appassionato di Frank), che ha splendidamente interpretato alcuni dei suoi brani. Trovate i link qui di seguito.

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Da allora, probabilmente sull’onda dell’interesse suscitato dalla ristampa del disco omonimo, è stato pubblicato un libro sul cantautore (Jackson C Frank: The Clear Hard Light of Genius, di Jim Abbott) e il regista Damien Aimé Dupont sta ultimando – non senza difficoltà, considerando lo scarso supporto ottenuto tramite il crowdfunding – un documentario dal titolo Blues Run the Game. A giudicare dai teaser presenti sul sito, si preannuncia interessantissimo e, a quanto sostiene Dupont, dovrebbe vedere la luce verso fine anno.

Nell’attesa, in questa prima domenica di autunno, mi abbandono all’ascolto del tesoro lasciatoci in eredità da Frank (e vi invito caldamente a fare altrettanto).

Leggi l’articolo su Accordo.it:  Le voci dimenticate: Jackson C. Frank

Ascolta la puntata: L’ultimo negozio di dischi sulla Terra: Jackson C. Frank

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Back to the Who 51 Tour

Quando, un paio di anni fa, Roger Daltrey annunciò il “The Who Hits 50 Tour”, definì la serie di eventi live che avrebbero celebrato il mezzo secolo di attività della storica band britannica come l’inizio di un lungo addio, ma probabilmente non poteva immaginare che il commiato si sarebbe protratto tanto a lungo: parte delle 70 date programmate sono, infatti, state posticipate all’inizio di quest’anno a causa di una meningite virale che ha colpito il cantante e che lo ha costretto a un riposo forzato fino al febbraio scorso. Inoltre, le numerose date aggiunte “in coda” (17, da giugno fino all’aprile dell’anno prossimo) hanno convinto la band a ribattezzare il prosieguo come “Back to the Who Tour 51”.

Ogni qualvolta un gruppo leggendario, magari mutilato di qualche componente originale, si appresta a rimettersi on the road con l’intenzione di chiudere definitivamente la propria carriera live, accende sentimenti contrastanti: se da un lato, può godere del supporto incondizionato dei fans più nostalgici, dall’altro suscita la stizza di chi preferirebbe non assistere a una manifestazione del suo fisiologico declino, volendone conservare un ricordo migliore. Gli Who (no, non riesco a dire “i Who”, come vorrebbe la Crusca, n.d.r.), però, hanno costruito la loro reputazione proprio su una considerevole attività live, oltre che su una produzione discografica d’eccezione, e questo legittima l’entusiasmo dei tantissimi che hanno deciso di assistere ai concerti di questo – si presume –  ultimo tour, che li ha portati a Bologna il 17 e a Milano il 19 settembre.

Ad accompagnare i due membri originali – Roger Daltrey alla voce e Pete Townshend alla chitarra – una lineup di tutto rispetto:  John Corey e Loren Gold alle tastiere, percussioni e cori, Frank Simes a tastiere, percussioni, cori, mandolino e banjo, Pino Palladino al basso, Zak Starkey (figlio di Ringo Starr, n.d.r.) e Simon Townshend, fratello di Pete e collaboratore degli Who da una ventina di anni, a chitarre e cori. Una formazione dall’impronta vintage che non ha tradito il sound originario della band.

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Dopo il set di apertura degli Slydig (buon gruppo britannico ben accolto dal pubblico milanese), in due ore di show, in ordine sparso, gli Who hanno snocciolato una pioggia di pietre miliari della storia del rock: dagli esordi di I Can’t Explain, The Kids Are Alright e My Generation (inni della generazione Mod, una copiosa rappresentanza dei cui “figli”, muniti di Vespa truccatissima e in abiti d’epoca, ha presenziato alle due date italiane), alle perle di Tommy (Amazing Journey, Acid Queen , Pinball Wizard e See Me, Feel Me) passando agli anni ’70 con le hit di Who’s Next (Behind Blue Eyes, Bargain e le colossali Baba O’Riley e Won’t Get Fooled Again), con Join Together (un momento toccante, in cui gli Who hanno testimoniato la loro vicinanza alle popolazioni colpite dal terremoto dello scorso agosto) e la sezione di Quadrophenia (5.15, I’m One, The Rock e Love, Reign o’er Me), fino ai singoli dei primi anni ’80, accolti più tiepidamente dal pubblico ma sempre splendidi. Il susseguirsi dei brani è stato contrappuntato dalla proiezione di filmati d’epoca, immagini della band e animazioni di una bellezza tale che da sola sarebbe valsa i soldi del biglietto. Splendidi, in particolare, i ricordi dei compagni che non ci sono più: il batterista Keith Moon e il bassista John Entwistle, scomparsi rispettivamente nel 1978 e nel 2002. Se l’assenza del primo è stata ampiamente metabolizzata da chi, come me, lo ha sempre visto unicamente in filmati d’epoca, fa ancora un certo effetto non scorgere la presenza discreta di John Entwistle sul palco, nonostante il suo sostituto sia ben più che degno (come ha testimoniato l’ovazione che il pubblico gli ha riservato a fine concerto).

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In tutta franchezza, con un catalogo e delle doti come i loro, resta da capire come sia possibile che gli Who, nonostante sia stato loro concesso di soggiornare nell’Olimpo del rock, non abbiano mai davvero guadagnato lo stesso status di altri fellow Brits. Eppure, anche a volersi limitare a quel che abbiamo ascoltato in questa serata milanese, sono tanti e tali i capolavori che hanno consegnato alla storia da lasciare quasi sbalorditi, soprattutto se si pensa che arrivano tutti dal genio di Pete Townshend, autore della quasi totalità dei brani incisi dal gruppo. Impossibile non interrogarsi sui territori sonori conquistati da un singolo individuo, che è anche un performer eccezionale: forte del suo parco chitarre rivisto e ampliato, ha regalato ai fans un’esibizione stellare, senza risparmiare i gesti iconici che da decenni mandano in delirio i suoi fans (primo fra tutti lo storico mulinello) e parlando senza sosta al pubblico.  Roger Daltrey, invece, è lo stesso leone di sempre, il rocker per antonomasia, una roccia dal carisma sfacciatamente intatto, il migliore interprete che la musica di Townshend potesse trovare, come lo stesso chitarrista ha detto, presentandolo.

C’è poco da aggiungere. Per come lo concepisco io, il rock – quello vero –  va scritto e suonato così: idee geniali sviluppate nel loro pieno potenziale da parte di un gruppo di individui che trasudano talento. Al Forum non si è avvertita neanche per un attimo la nostalgia per i tempi andati; è stato il trionfo del sincronismo di musica totalmente senza tempo. Purtroppo l’epifania che stasera ha manifestato una volta di più la grandezza di questi titani ci ha mostrato, per inverso e con una chiarezza dolorosa, ciò che manca alla musica oggi: il genio, appunto.

Ci sono buone possibilità che il duo Daltrey-Townshend continui a fare musica (un nuovo album potrebbe vedere la luce a breve), ma difficilmente torneranno a fare tour mondiali insieme, a quanto loro stessi dicono. Speriamo che mentano: Long Live Rock!

SCALETTA:

I Can’t Explain

The Seeker

Who are you

The Kids Are Alright

I Can See For Miles

My Generation

Behind Blue Eyes

Bargain

Join Together

You Better You Bet

5.15

I’m One

The Rock

Love, Reign O’er Me

Eminence Front

Amazing Journey

The Acid Queen

Pinball Wizard

See Me, Feel Me

Baba O’Riley

Won’t Get Fooled Again